Non ancora abbastanza.

Solita nottataccia in PS.
100 - 120 pazienti dentro. Una ventina ancora in attesa. Io ne seguo più o meno 30.
La cosa peggiore, è che sono appena le 10 di sera, e la fine del turno all'orizzonte è come il profilo di una terra remota per un naufrago che sa a malapena tenersi a galla.
«Dottore» una ragazza mi si presenta davanti, preoccupatissima. «Mia madre non respira bene».
"Cazzo". Penso, col virgolettato.
In questi casi, bisogna velocemente decidere se correre dal paziente non sapendo niente di chi sia, cosa abbia e perché sia in ospedale, oppure sbrigarsi a leggere qualcosa sulle consegne mentre quello - magari - con il fatto che non respira bene sta tranquillamente crepando. Decido per la seconda opzione
«Come si chiama sua madre?» chiedo.
La ragazza mi dice il nome... che non sto qui a riportare. Facciamo che si chiamava "Rosa". Io scorro rapidamente la lista dei pazienti, e leggo:
"Tumore recidivante plurimetastatico. Paziente in coma. Familiari informati delle condizioni gravissime della paziente".
In un attimo, è tutto abbastanza chiaro: il problema di Rosa non è tanto quello di respirare, bene o male che sia. Il problema, è che sta morendo.
Seguo la ragazza fino nella stanzetta dove qualcuno nel turno passato ha sistemato la paziente in modo che postesse avere un minimo di intimità con i familiari, e trovo Rosa nella sua barella circondata da 6 persone. Seduto accanto a lei, un uomo anziano le stringe la mano.
Quando entro mi fissano tutti intensamente, ma nessuno parla.
La donna nel letto sembra dormire. Ha la testa girata da un lato, il respiro pesante dietro la maschera dell'ossigeno. Non sembra notare la presenza di nessuno di noi, e so che se anche la chiamassi e la scuotessi non risponderebbe.
Sul monitor, i parametri comunicano un impietoso bollettino di guerra: pressione che bene o male regge, il cuore un po' troppo veloce, la saturazione che invece proprio non va.
«Proviamo ad aumentare un po' l'ossigeno», dico, sistemando la ventimask.
Esco fuori e faccio per tornare agli altri pazienti, quando un uomo sulla sessantina mi raggiunge.
«Pensa che mia sorella morirà a breve?» mi chiede.
Io incasso la domanda come un destro allo stomaco.
«Purtroppo le condizioni sono molto gravi», rispondo. «Potrebbe non mancare molto».
«Anche questa notte?»
Io non lo so, non so come rispondere a questa domanda. I parametri vitali erano brutti, ma non erano così davvero brutti tremendamente. Non so fare il calcolo di quanto ti resta da vivere quando sei in coma con le metastasi, nessuno me l'ha mai insegnato. Rispondo un qualcosa che suona, tipo:
«Forse potrebe essere sicuramente sì, ma anche probabilmente no».
Torno al mio posto, e riprendo il solito turno standard del pronto soccorso: parlo con qualcuno in attesa di un posto letto. Rivisito un signore che ha avuto dolore al torace. Discuto con altri di prelievi e terapie. Poi, di nuovo.
«Mia madre ha la febbre» mi informa la ragazza di prima.
Io torno nella stanzetta, e sono di nuovo solo davanti a 6 persone che mi guardano in silenzio. Prendo la temperatura di Rosa, e scopro che ha la febbre alta.
«Ora le diamo qualcosa per farla scendere» dico, allontanandomi per cercare un infermiere.
Per il corridoio, mi ferma un ragazzo.
«Lo so che zia sta per morire» mi dice. «Ma crede nonno potrebbe andare un po' a casa a riposare, e tornare domattina?»
Di nuovo la domanda di sopra, solo formulata diversamente. E io che faccio? Gli dico di restare qui, col rischio che il signore anziano si senta male? O lo mando a andare a casa, col rischio di perdersi... di non esserci in quel momento?
«Non glielo so dire» scuoto la testa. «In queste situazioni non c'è modo di saperlo».
Ritorno al mio lavoro, o meglio al resto del mio lavoro, che era il mio lavoro anche quello. Passa un'oretta, e poi qualcuno mi viene incontro di nuovo.
«La signora Rosa ha la bava alla bocca».
Io non dico niente. Torno nella stanzetta, e trovo il signore anziano che asciuga le labbra della donna con un fazzoletto. Non c'è gran che da togliere con l'aspiratore. Sul monitor i parametri iniziano a essere più impietosi di quanto già non fossero dal principio. Nell'angolo qualcuno piange. Io vorrei che la notte fosse finita 2 giorni fa, ma sono ancora le 3.
Sbrigo un altro po' delle mie cose, finché alle 4 un'altra donna sulla quarantina viene da me completamente in lacrime.
«La pressione ha qualcosa che non va!»
Torno nella stanza di Rosa. L'allarme del monitor sta suonando, e i suoi parenti fissano lo schermo con la disperazione negli occhi.
«Questo serve solo per dirci cose che già sappiamo» dico, disattivando l'allarme.
Forse suonava meglio nella mia mente, perché tutti iniziano contemporaneamente a piangere. Io vorrei essere su un altro pianeta. Se l'aria fosse respirabile sarebbe un di più, ma posso accontentarmi.
Riprendo per l'ennesima volta la mia routine. Alle 5 di mattina si forma la incredibile congiunzione astrale per cui la stanza di visita è vuota. Ho rivisto tutti i miei pazienti. Nessuno mi sta cercando. Non c'è nessuno al triage in attesa di essere visitato.
Crollo sulla mia sedia, e mi appoggio contro lo schienale
"Che notte di merda" mi dico, assaporando il grigiore del soffitto illuminato dai neon mezzi spenti.
Trenta secondi contati, anche meno, e si avvicina un infermiere.
 «Simone» mi fa. «La paziente nella stanzetta coi parenti».
Non aggiunge altro, ma l'espressione e il tono sono inequivocabili.
Mi alzo con un nodo in gola, e me lo porto per tutto il corridoio fino alla stanza di Rosa.
Sono circondato da persone che piangono. Il monitor ha ripreso a suonare, e tra i parametri spicca un elettrocardiogramma piatto. Il signore anziano mi guarda come se il responso finale dipendesse comunque ancora da me.
E io vorrei dire qualcosa di sensato e consolatorio. Vorrei essere professionale e presente e tutte quelle stronzate che ti scrivono sulle slide degli esami di metodologia. Ma è difficile. Le parole salgono dal petto, si fermano un po' dietro la lingua e ricascano nello stomaco.
«Se ne è andata» è tutto quello che riesco a pronunciare, mentre spengo il monitor. «Ora vi mando gli infermieri».
Il senso del mandare gli infermieri è che qualcuno si occuperà della salma. Il senso è anche che mi dà l'occasione di allontanarmi, e mandare qualcun altro. Diciamo tutta la verità.
Torno nella mia stanza. Informo gli strutturati del decesso, e inizio a compilare le carte.
Passa un'oretta, e intanto ci ripenso, a questa cosa: al fatto che non ho fatto nemmeno le condoglianze ai parenti. Che li ho mollati un po' lì, come se a quel punto il mio lavoro fosse finito, e ciao.
Decido che così non va bene, e provo - timidamente - ad affacciarmi di nuovo alla saletta dove è morta Rosa. Ma hanno già spostato la salma, e tutti quei familiari che prima mi sembravano ovunque, adesso non li trovo più.
Avranno accompagnato il signore anziano a casa. Saranno nella stanza dove lasciano per un po' i pazienti appena deceduti, ma che io non riesco ancora a trovare dopo più di un anno che lavoro lì. Saranno andati - forse - semplicemente a prendersì un caffè in prospettiva di un indomani pesante e interminabile.
Rosa se ne era andata già ben prima del mio turno, secondo me. Però i suoi parenti ricorderanno quel dottore un po' freddo, un po' frettoloso. Che alla fine ha staccato tutto ed è andato via, senza tanti contatti né troppe parole.
Potrò essergli sembrato il solito dottore un po' stronzo. Così come sarò sembrato anche a voi quando, qualche paragrafo più sopra, ho imprecato contro la nottataccia. "Ma a come stava il tuo paziente non ci pensi? Un vero medico non si comporta così. Sei la persona peggiore del mondo!" Mi pare già di leggerli, i vostri commenti.
Il fatto è che è difficile. E credo che dal racconto già si capisca, ma è meglio anche ripeterlo come si deve: è difficile fare il dottore, in certe situazioni. È difficile essere gentile, serio, comprensivo e compassionevole a notte fonda, quando ogni momento ti arriva qualche bordata e succede tutto il contrario di quello che speravi. O quando, semplicemente, sei in una di quelle giornate no. È difficile incrociare la sofferenza degli altri ed essere allo stesso tempo distaccato, ma non troppo. Lasciarsi coinvolgere, ma solo il giusto. Ed empatico quel poco che basta.
L'università era fatta di libri, nozioni, numeri, pratiche e procedure. La realtà è fatta di tanti, tanti problemi in cui ti ritrovi da solo su un percorso strettissimo, con un precipizio da una parte e gli spuntoni affilati dall'altra.
Bisogna essere bravi, per fare questo lavoro. E io, semplicemente, ancora non lo sono abbastanza.


Simone

Commenti

  1. Grazie Simone!
    Grazie per aver condiviso questo racconto con noi !
    G

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie a te per essere passato da queste parti e per averlo letto!

      Elimina
  2. Ciao Simone, non ti leggevo da una vita. Posso solo immaginare ciò che attraversa la mente di un medico in situazioni del genere...
    Le parole che hai scritto dimostrano quanto tu sia umano e coscienzioso, perciò non mi resta di augurarti di continuare a volare alto.

    Giovanni

    RispondiElimina
  3. Ciao!
    Fare il medico è come te lo aspettavi quando studiavi? Oppure è peggio o meglio?
    Inoltre, quando studiavi ti era mai capitato di sentire delle tecniche della memoria? Ho letto che mentre studiavi farmacologia usavi dei disegni, ma secondo te applicare le varie tecniche di memoria allo studio della medicina avrebbe un qualche riscontro positivo per risparmiare tempo e ricordare meglio?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao! Diciamo che non ho mai avuto grandi aspettative per la vita da specializzando, per cui non è che potessi in qualche modo trovarmi deluso :) Fare il medico è più difficile di come uno se lo immagina, non tanto per le nozioni e le procedure che alla fine si imparano, quanto per la difficoltà di avere sempre tante cose da fare e gestire nell'arco di uno stesso turno col rischio alle volte di sentirsi un po' persi in mezzo a tanto lavoro. Però pensavo che mi sarebbe piaciuto e mi piace, ora l'importante è piano piano trovare il percorso e la strada migliori come del resto vale per qualsiasi professione. Non ho mai studiato tecniche di memoria "ufficiali", per cui non saprei come risponderti.

      Elimina
  4. Ciao Simone!..intanto grazie per essere tornato, ho sempre letto i tuoi post che mi hanno fatto compagnia durante il mio corso di studi in Infermieristica e da tempo mancavi!..mi ha però colpito questo post, perché ora, giovane infermiera di quasi 24 anni, mi trovo da qualche mese a lavorare in Oncologia e mi rispecchio molto nelle tue parole: anch'io spesso mi trovo ad assistere pazienti terminali e i loro famigliari, cercando di rispondere alle loro domande che spesso ricalcano quelle che hai scritto sopra...chiudersi nella freddezza e nel "cinismo" a volte è una tentazione forte anche semplicemente per proteggerci da tutta la valanga di emozioni che un tumore e un lutto scatenano! Ma credo che "rimanere" esseri umani mentre si indossa la divisa dia un valore aggiunto alle nostre professioni e aiutino pazienti e famigliari a vivere quel momento con più serenità...e credo anche che poi noi ne usciamo più soddisfatti del nostro operato!
    Forse faccio la figura della troppo ingenua o dell'idealista, però spero ancora che nel nostro piccolo qualche differenza la possiamo fare =)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sicuramente il nostro lavoro conta molto e come lo facciamo può fare una grossa differenza. Speriamo di riuscirci sempre! :)

      Elimina
  5. Grande Simone! Continua così! Facciamo il tifo per te!

    RispondiElimina
  6. Bellissimo questo piccolo racconto di come sia difficile convivere con la propria umanità in questo lavoro, forse bisognerebbe raccontare di più cosa significhi fare il medico visto che sempre di più si ha una visione un po' distorta della figura dei medici. Magari potresti pensare di scrivere un libro che mostri da dentro cosa vuol dire fare il medico nell'Italia di oggi. Buona fortuna per la tua carriera. Gianmarco.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie Gianmarco. Ottima proposta, un po' è quello che ho già fatto o che sto facendo... spero. In bocca al lupo anche a te! :)

      Elimina
  7. Ehi ciao Simone,
    Non sono dottore, ma frequento questi amebienti per attività di volontariato e posso capire la tua situazione, alla fine sei una persona come me, magari con mille cose che sai piú di me in questo ambito, ma pur sempre una persona.
    La situazione della Rosa sono davvero brutte, e sommate alla giornata no di noi stessi, sono difficili da affrontare... uno scudo di freddezza si forma tutto intorno, per lasciare la tristezza fuori e cercare di continuare a fare il tuo lavoro

    RispondiElimina

Posta un commento